Recensione del libro “Nei luoghi del fare anima” di Antonella Russo
12/11/2014L’Anima Fa… Libro
14/11/2014NEI LUOGHI DEL FARE ANIMA
Dimensione immaginale del processo terapeutico
di Riccardo Mondo
Prima di tutto volevo ringraziare l’autore poiché la lettura del suo libro ha riattualizzato in me l’interesse, e quindi la riflessione, intorno a due elementi che, ritengo, rappresentano il fulcro del nostro mestiere. Il primo rimanda alla modalità di usare la nostra mente nella stanza d’analisi, modalità unica e specifica che, credo, possa essere definita con l’espressione ‘pensare con il cuore’. Mi riferisco ad un pensare direttamente ancorato ad uno stato mentale di vulnerabilità, di apertura affettiva verso l’altro. La nostra contemporaneità è caratterizzata da incertezza, inquietudine, disorientamento, mancanza di senso di appartenenza; di conseguenza assenza di solidarietà. Di fronte a tale smarrimento il mondo psicodinamico sembra difendersi attivando una sorta di scientismo di ritorno. A volte, noi analisti, riteniamo che affiancando al nostro sapere tradizionale, un pizzico di neuroscenze, un granello di cognitivismo, e sostituendo al termine psiche quello di mente, diventiamo moderni; degni, quindi, di essere presenti nella cultura contemporanea. Infatti, la scientificità, nel mondo attuale, sta diventando un nuovo mito. Il libro ci aiuta, invece, a comprendere quanto sia poco proficuo affannarsi nel cercare di competere con le cosiddette verità scientifiche. Queste ultime, infatti, con le inevitabili generalizzazioni tendono a ridurre, in una sorta di protocollo valido per tutti, la complessità della psiche e la consustanziale sofferenza degli essere umani. In tal modo si azzera l’unicità di ogni singolo individuo, il suo specifico stare al mondo.
L’altro elemento è legato all’aver potuto rincontrare un sentimento di gratitudine nei confronti della psicologia analitica. La gratitudine verso il sapere tradizionale, non è intesa come una sorta di irriflesso culto degli antenati o come un bisogno di appartenenza infantile e acritico, che possa garantire una sicurezza identitaria, in un mondo segnato dal crollo delle verità assolute. Al contrario il sentimento di gratitudine verso il pensiero tradizionale, è legato al suo modo di concepire il valore relativo e soggettivo delle teorie psicologiche; ai rimandi continui alle cosiddette qualità umane dell’analista, e infine, alla necessità di rimanere sempre consapevoli dei limiti intrinseci della nostra capacità di comprendere e spiegare, in maniera deterministicamente esaustiva, la complessità della psiche. Il libro, che si legge con estrema piacevolezza, e’ diviso in due parti definite: Lo spazio della cura e L’incontro con l’Altro, ed è composto da capito brevi che, a volte, evocano l’immagine di un affresco. L’apparente leggerezza e la fluidità con cui vengono affrontati i punti nodali che sostanziano il processo analitico, fanno vivere al lettore la sensazione di essere presi delicatamente per mano e introdotti, metaforicamente, nella stanza d’analisi, nel tempio della cura. L’apparente leggerezza del testo è da porre in relazione con la capacità dell’autore di intrecciare il sapere acquisito nel corso del tempo, con l’esperienza viva, con ciò che accade nel qui ed ora della singola seduta analitica. Infatti, gli strumenti teorici, non vengono sovrapposti al racconto della storia clinica. Si ha, piuttosto, l’impressione che le generalizzazioni della teoria, e gli elementi desunti dalle singole storie cliniche, si combinino tra loro diventando un tutto coerente e vivo. Il lettore sente, così, di essere immerso nel processo di cura, uno spettatore non distante, non neutro, ma partecipe a livello emotivo. Questa impressione ha evocato nella mia mente un brano del libro Il suicido e l’anima. Hillman, riferendosi al mistero del processo terapeutico, ritiene che “ Il vaso chiuso -la stanza d’analisi- è il ricettacolo delle forze trascendenti, e impersonali della psiche che producono la guarigione. Questa guarigione viene preparata dietro il sipario, tra le quinte. Alcuni hanno sperimentato queste forze impersonali come Dei, la cui azione nel processo di guarigione produce un dramma riflesso nei sogni… Quando gli Dei arrivano sul palcoscenico tutto diventa silenzioso e le palpebre si chiudono. Immersi nell’oblio di questa esperienza si riemerge senza sapere precisamente che cosa è accaduto, si sa soltanto che si è stati trasformati”. (Hillman, J., 1964, Il suicido e l’anima, Astrolabio, Roma, 1972, p.137-138)
Di seguito vorrei delineare, brevemente, tre temi che, a mio parere, definiscono la trama del libro. Li espongo separatamente, solo per comodità espositiva, poiché nel testo sono interconnessi tra loro: Il valore etico della cura, Il coraggio di affidarsi all’altro, e La personalità dell’analista.
Il valore etico della cura
Tutto il testo è percorso dalla convinzione che la psicologia del profondo non è riconducibile ad una impresa culturale, umanistico-letteraria realizzata da persone alla ricerca di titoli di superiorità o prestigio ma, piuttosto va ricondotta, alla complessa prestazione terapeutica di chi vuole affrontare come terapeuta e come paziente la sofferenza umana. L’uomo contemporaneo è spinto a non dar valore alla vita interiore. “Sogni, immaginazione e fantasie -scrive l’autore- sono ascoltati con scetticismo. L’individuo così perde il senso del progetto e del significato e si identifica con la propria maschera sociale”. (p.55) “Siamo costantemente a rischio che ci sfugga il controllo della nostra vita, un qualsiasi trattato di psicopatologia potrebbe sottotitolarsi Trattato delle fragilità dell’io.”(p.56) Ma per “abbandonare realmente la centralità dell’io”, (p.72) farsi toccare dal mondo interno e “accogliere la saggezza profetica”(p.66) contenuta nei sintomi, bisogna, necessariamente, aver prima realizzato tale centralità. Quando l’io è troppo fragile, o troppo frammentato tutto questo non sempre può accadere. Ciò comporta, da parte dell’analista, la necessità di un ascolto rispettoso. Ascolto rispettoso che riesca a tollerare la staticità e cronicità in cui il paziente sembra essere caduto. Il valore della cura dovrebbe consistere, per l’autore, nell’aiutare il paziente a non essere agito dai nuclei complessuali profondi, dal proprio coatto copione esistenziale. Tentare, inoltre, di sostenerlo affinché possa rientrare nel flusso della propria esistenza, sentirsi, psicologicamente, vivo, e percorrere, la bellezza e pienezza della vita nonostante le ferite e i legami danneggiati. La cura analitica può, quindi, essere intesa come realizzazione di atteggiamenti interiori, di intuizioni, di immedesimazioni e di dialogo, di ascolto e di riconoscimento della dignità, della libertà, e della diversità dell’altro. Noi analisti dovremmo coltivare l’intenzione di essere affettivamente vicino all’altro e, al contempo nutrire la fiducia che, nel paziente possa nascere, come scrive Hillman “…il momento della riflessione che permette l’interiorizzazione degli eventi affinché questi possano essere assorbiti come fatti psichici” “Resta il complesso e la lacuna, ciò che si diversifica sono le nostre connessioni con quei luoghi e le nostre riflessioni attraverso esse.
Il coraggio di affidarsi all’altro
“Infondo si va in terapia -scrive Mondo- nella speranza di guarire in fretta, senza mettere realmente in gioco niente.”(p.86) Invece la cura della propria psiche chiede al paziente impegno, costanza e una certa dose di dedizione alla propria sofferenza che non sempre è tollerabile. Infatti si vorrebbe consegnare il proprio dolore all’analista e tornare a visitarlo la seduta successiva, per incontrarlo solo in quello spazio. A queste affermazioni giuste e inequivocabile l’autore affianca altre riflessioni. Riflessioni che spesso noi analisti tralasciamo nello sfondo dei nostri pensieri. Infatti quando aspettiamo un paziente, (mi riferisco al primo colloquio) siamo concentrati sulla nostra disponibilità ad accogliere realmente l’altro, che fino a quel momento è uno sconosciuto. Non rivolgiamo la giusta attenzione a come possa sentirsi una persona che si troverà anche lui di fronte ad uno sconosciuto. “A un individuo che si sottoponga a una psicoterapia -scrive l’autore- è richiesta una consapevole tenacia.”(p.137) “Andare a consultare un professionista della psiche è un’operazione estremamente travagliata. Chi sarà l’individuo che si porrà di fronte a noi?…Perché confessargli segreti lungamente custoditi?”(p.68) Questo brano evidenzia la presenza, in una richiesta di aiuto, della dimensione del coraggio: bisogna affidare all’altro, sconosciuto, la propria intimità. Fidarsi che l’altro sia realmente interessato e dia dignità alle più vergognose e dolorose fantasie che invadono e si impossessano della psiche. Il coraggio e l’umiltà di affidarsi all’altro possono determinare la nascita della possibilità di dare dignità al proprio patire, e immaginare-sperare che la propria esistenza possa rivelarsi degna di essere vissuta.
La personalità dell’analista
L’autore, ci descrive la sua mente al lavoro, quando di fronte a lui un essere umano, come lui, gli sta chiedendo, nei modo più tortuosi e complessi, di essere aiutato a tollerare e trasformare il suo personalissimo dolore. E sottolinea quanto sia indispensabile mantenere in vita la capacità-possibilità di assumere, in ogni seduta, la speranza di essere affidabile per l’altro. Questa concezione della cura comporta sia la capacità di sostare nell’incertezza e farsi toccare dal dolore dell’altro. Sia la consapevolezza che l’adesione acritica alla teoria rischia di inaridire e bloccare qualsiasi processo di comprensione dell’altro da sé. “Nella stanza d’analisi -scrive Mondo- il terapeuta è solo, con i suoi limiti umani che potrebbero indurlo in errore. Non c’è nessuno che possa sostituirlo nell’unicità di una relazione terapeutica.” (p.49) In tal senso l’autore racconta i momenti di trasformazione ma anche di fallimento, di stanchezza, e di distruttività che abitano, inevitabilmente, il mondo interno di ogni singolo analista. Evidenzia, inoltre, quanto sia impegnativo far si che le proprie correnti emozionali negative non trascinino altrove la sua disponibilità verso l’altro. Jung riferendosi alle cosiddette qualità umane dell’analista, utilizza espressioni quali fede, speranza, amore, conoscenza, umiltà e riflessione sui propri inevitabili errori. Fattori che presuppongono la capacità, la possibilità di sospendere il giudizio, di sopportare una certa dose di incertezza, di accettare che, a volte, vi siano più domande che risposte. Ed in fine, il libro aiuta i terapeuti a coltivare il sentimento di appartenenza. Poiché, pur soli con l’altro nella stanza d’analisi, sappiamo che tanti altri, come noi, vivono situazioni simili alle nostre. Possiamo così sentirci parte di una comunità che condivide la medesima aspirazione: dare senso e valore alla consustanziale sofferenza umana. La complessità che comporta questo lavoro è legata all’incontro con l’altro da sé, con ciò che percepiamo come diverso. Tale incontro è di per se perturbante poiché, come scriveva già Jung nel 1907, in un brano di rilevante attualità, sempre, “al di là del substrato anatomico v’è ciò che per noi è importante, vale a dire l’anima, entità da sempre indefinibile, e che continua a sfuggire anche ai più abili tentativi di afferrarla”. (Jung, C. G., 1907 Psicogenesi delle malattie mentali, Opere, Vol.III, Boringhieri, Torino, 1971)