La recensione: C.G.Jung. Immagine e parola.
01/12/2004Presentazione del libro: Caro Hillman… Venticinque scambi epistolari con James Hillman
03/12/2004Caro Hillman ti scrivo
Lettere a un grande eretico
Esce un carteggio tra un gruppo di personaggi della cultura italiana e l’intellettuale americano che ama la provocazione e la sorpresa Il dissenso prevale sull’ammirazione per il maestro che ha radicalmente messo sotto accusa la psicoanalisi.
Viene messa in discussione l’identità dell’inventore della “psicologia archetipica”
C’è una polifonia di voci anche molto contrastanti che percorre il mondo dei nipotini di Jung
Viene messa in discussione l’identità dell’inventore della “psicologia archetipica”
C’è una polifonia di voci anche molto contrastanti che percorre il mondo dei nipotini di Jung
Alcuni personaggi della psicologia analitica e della cultura italiana scrivono a James Hillman, la figura senz’altro più carismatica – anche se molto controversa – dello junghismo contemporaneo: le venticinque lettere, accompagnate dalle risposte del destinatario, sono state raccolte in un libro dal titolo Caro Hillman?, per la cura intelligente e fantasiosa di Riccardo Mondo e Luigi Turinese (Bollati Boringhieri, pagg. 240, euro 26).
È un volume che interessa, per più di una ragione. Intanto, attraverso questo carteggio, si coglie con grande immediatezza la polifonia di voci – assai poco assimilabili tra loro – che percorre l’universo junghiano. Emergono, dall’epistolario, due tendenze che già coesistono in Jung, pensatore geniale ma disordinato e asistematico, contraddittorio e pieno di aporie: una è decisamente critica, ermeneutica, probabilista; l´altra sembra cadere nell’illusione di una psicologia perennis, di una psiche in qualche modo oggettiva, valida e identica per tutti, con un eccesso di enfasi – ad esempio – per quella ipotesi suggestiva ma enigmatica, nebulosissima, che è l’inconscio collettivo.
Oltre a disegnare una mappa curiosa dello junghismo italiano, questo libro sottende costantemente nelle sue pagine un interrogativo – sospeso e irrisolto – che rimanda all’identità più autentica del maestro di Atlantic City.
Chi è infatti oggi James Hillman? Si sa che, a Zurigo, è stato un allievo diretto di Jung, ma – dopo quella che lui stesso ha definito «una crisi di fede – è diventato l’inventore di un nuovo pensiero, di una sua disciplina detta “psicologia archetipica”, ribattezzata frettolosamente e a dispetto del ridicolo “una terapia con gli dèi”.
Oggi non è chiaro se Hillman si possa ancora in qualche modo considerare uno psicoanalista, per quanto eterodosso e da molti anni lontano dalla pratica clinica, o sia piuttosto un raffinatissimo letterato, un intellettuale neoplatonico (amatissimo dagli intellettuali, e dai molti che suppongono di esserlo), un cantore neopagano di cui poco o nulla è rimasto dell´imprinting originario: «un brillante bricoleur», per dirla con Augusto Romano.
In queste lettere inviate a Hillman, può sorprendere che in genere sia il dissenso a prevalere sull’ammirazione. Quella di Mario Trevi, firmata con Marco Innamorati (insieme hanno scritto Riprendere Jung), è una presa di distanza, sofisticata ma dura già nel titolo, “Contra psychologiam archetypalem”, una messa sotto accusa delle tesi più ardite di Hillman: dalla lettura che fa dei classici alla pretesa di parlare ancora di un’ontologia dell´anima, al rifiuto drastico di ogni modello medico.
Nella sua risposta, il grande provocatore americano – che a tratti tende ad assumere un’aria sussiegosa un po´ irritante – sfugge abilmente alle questioni più sottili. «Un freddo vento del Senex soffia da nord, e potrei essere indotto a focose esagerazioni del Puer come difesa?»: Hillman non cade in questa tentazione, e del resto sarebbe poco convincente contrapporre a un presunto atteggiamento senile il suo spirito da eterno fanciullo, anzi il suo metodo ermetico/mercuriale che «si avvale di trucchi, inganni, appropriazioni e non vuole stare da qualche parte a combattere, ma fugge nell´invisibilità su scarpe alate in conformità con i suoi alati pensieri avvolti in “può darsi”, “forse” e “come se”»?
La sensazione è che il comune ceppo junghiano non basti ad accorciare le distanze: Hillman e Trevi non potrebbero essere più sideralmente lontani, a cominciare dai linguaggi che utilizzano. «Che cosa abbiamo da dirci l’un l’altro?», si chiede Hillman con una qualche brutalità, concludendo in modo scarsamente dialettico: «Due sentieri paralleli, non importa quante miglia possiamo percorrere, non si incontreranno mai. Forse fianco a fianco è abbastanza».
Molto spiritosa, ma per nulla rapita dal pensiero dell’autore di Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, risulta Silvia Vegetti Finzi: lei ha tradito la psicoanalisi, gli scrive, «nel senso in cui l’amante tradisce l’amata per troppo amore? Lei affida alla psicoanalisi nientemeno che l’incarico di salvare il mondo? Ma siamo sicuri che la psicoanalisi abbia il compito di prendere il posto di Dio: di sapere tutto, di potere tutto?».
Se qui lo scambio è meno glaciale, la possibilità di un dialogo autentico rimane piuttosto remota. Il punto è che alle “regole” della clinica psicoanalitica Hillman è estraneo fino all’insofferenza, e non ha alcuna difficoltà a dichiararsi colpevole dell´accusa di essere un traditore. Non è la stanza d’analisi a interessarlo, non sono i piccoli o grandi malesseri di pazienti in cerca d’ascolto a catturarne l’attenzione. Il suo impegno ha dimensioni molto più ampie, più ambiziose: lui si dedica a «stendere l’anima del mondo sul lettino e a rimanere in ascolto delle sue sofferenze». È questa immagine a catturarlo, o anche, con un’espressione che gli è cara: è questo il suo daimon.
Alla fine, da raffinatissimo giocoliere qual è, ritorce con abilità l’accusa di tradimento, pure accettata senza sussulti: «Le replico – sempre nello spirito di calore e comprensione tra noi – che la Sua posizione tradisce la sfida contemporanea alla pratica clinica: la sua estensione oltre la stanza di terapia. Traggo questo orientamento sia da Freud sia da Jung, che consideravano il loro lavoro un lavoro sui tempi e sulla cultura collettiva in cui la psiche era immersa».
Spulciando ancora tra le molte lettere di questo carteggio, più incline alla perplessità che all’elogio appare anche Marcello Pignatelli, che – seppure con garbo amichevole – segnala il rischio di una deriva estetizzante. Come sempre Hillman si diverte soprattutto a spiazzare, e in questo caso lo fa rievocando una bella serata romana di anni fa proprio nella casa di Pignatelli, il “collega” junghiano involontariamente caduto in un fraintendimento comune.
«Quando tu mi hai ricevuto lì, con vino, cibo e conversazioni, ponendo attenzione ai bisogni di un visitatore straniero? questo tuo comportamento apparteneva all’etica o all’estetica? Conosci bene la tradizione classica, da Platone in poi, in cui Estetica ed Etica erano inseparabili. Entrambe sono contenute nella parola Kosmos, che significa giusto ordine, implicando sia la bellezza sia la giustizia»: per Hillman, la divisione tra queste due nozioni può risultare, oltre che falsa, dannosa per entrambe «poiché priva il mondo dell´estetica di ogni moralità e il mondo morale di ogni sensibilità». Dal suo punto di vista, l’insistenza sul bello avrebbe di per sé una connotazione di ordine etico.
Sarà il caso di fare almeno un cenno allo scambio affettuosissimo che in questo libro si rintraccia tra Manlio Sgalambro e Hillman sulla condizione della vecchiaia, un tema su cui entrambi si sono esercitati con risultati brillanti. Il filosofo gli ha inviato una sua poesia che si conclude con questi versi:
È un volume che interessa, per più di una ragione. Intanto, attraverso questo carteggio, si coglie con grande immediatezza la polifonia di voci – assai poco assimilabili tra loro – che percorre l’universo junghiano. Emergono, dall’epistolario, due tendenze che già coesistono in Jung, pensatore geniale ma disordinato e asistematico, contraddittorio e pieno di aporie: una è decisamente critica, ermeneutica, probabilista; l´altra sembra cadere nell’illusione di una psicologia perennis, di una psiche in qualche modo oggettiva, valida e identica per tutti, con un eccesso di enfasi – ad esempio – per quella ipotesi suggestiva ma enigmatica, nebulosissima, che è l’inconscio collettivo.
Oltre a disegnare una mappa curiosa dello junghismo italiano, questo libro sottende costantemente nelle sue pagine un interrogativo – sospeso e irrisolto – che rimanda all’identità più autentica del maestro di Atlantic City.
Chi è infatti oggi James Hillman? Si sa che, a Zurigo, è stato un allievo diretto di Jung, ma – dopo quella che lui stesso ha definito «una crisi di fede – è diventato l’inventore di un nuovo pensiero, di una sua disciplina detta “psicologia archetipica”, ribattezzata frettolosamente e a dispetto del ridicolo “una terapia con gli dèi”.
Oggi non è chiaro se Hillman si possa ancora in qualche modo considerare uno psicoanalista, per quanto eterodosso e da molti anni lontano dalla pratica clinica, o sia piuttosto un raffinatissimo letterato, un intellettuale neoplatonico (amatissimo dagli intellettuali, e dai molti che suppongono di esserlo), un cantore neopagano di cui poco o nulla è rimasto dell´imprinting originario: «un brillante bricoleur», per dirla con Augusto Romano.
In queste lettere inviate a Hillman, può sorprendere che in genere sia il dissenso a prevalere sull’ammirazione. Quella di Mario Trevi, firmata con Marco Innamorati (insieme hanno scritto Riprendere Jung), è una presa di distanza, sofisticata ma dura già nel titolo, “Contra psychologiam archetypalem”, una messa sotto accusa delle tesi più ardite di Hillman: dalla lettura che fa dei classici alla pretesa di parlare ancora di un’ontologia dell´anima, al rifiuto drastico di ogni modello medico.
Nella sua risposta, il grande provocatore americano – che a tratti tende ad assumere un’aria sussiegosa un po´ irritante – sfugge abilmente alle questioni più sottili. «Un freddo vento del Senex soffia da nord, e potrei essere indotto a focose esagerazioni del Puer come difesa?»: Hillman non cade in questa tentazione, e del resto sarebbe poco convincente contrapporre a un presunto atteggiamento senile il suo spirito da eterno fanciullo, anzi il suo metodo ermetico/mercuriale che «si avvale di trucchi, inganni, appropriazioni e non vuole stare da qualche parte a combattere, ma fugge nell´invisibilità su scarpe alate in conformità con i suoi alati pensieri avvolti in “può darsi”, “forse” e “come se”»?
La sensazione è che il comune ceppo junghiano non basti ad accorciare le distanze: Hillman e Trevi non potrebbero essere più sideralmente lontani, a cominciare dai linguaggi che utilizzano. «Che cosa abbiamo da dirci l’un l’altro?», si chiede Hillman con una qualche brutalità, concludendo in modo scarsamente dialettico: «Due sentieri paralleli, non importa quante miglia possiamo percorrere, non si incontreranno mai. Forse fianco a fianco è abbastanza».
Molto spiritosa, ma per nulla rapita dal pensiero dell’autore di Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, risulta Silvia Vegetti Finzi: lei ha tradito la psicoanalisi, gli scrive, «nel senso in cui l’amante tradisce l’amata per troppo amore? Lei affida alla psicoanalisi nientemeno che l’incarico di salvare il mondo? Ma siamo sicuri che la psicoanalisi abbia il compito di prendere il posto di Dio: di sapere tutto, di potere tutto?».
Se qui lo scambio è meno glaciale, la possibilità di un dialogo autentico rimane piuttosto remota. Il punto è che alle “regole” della clinica psicoanalitica Hillman è estraneo fino all’insofferenza, e non ha alcuna difficoltà a dichiararsi colpevole dell´accusa di essere un traditore. Non è la stanza d’analisi a interessarlo, non sono i piccoli o grandi malesseri di pazienti in cerca d’ascolto a catturarne l’attenzione. Il suo impegno ha dimensioni molto più ampie, più ambiziose: lui si dedica a «stendere l’anima del mondo sul lettino e a rimanere in ascolto delle sue sofferenze». È questa immagine a catturarlo, o anche, con un’espressione che gli è cara: è questo il suo daimon.
Alla fine, da raffinatissimo giocoliere qual è, ritorce con abilità l’accusa di tradimento, pure accettata senza sussulti: «Le replico – sempre nello spirito di calore e comprensione tra noi – che la Sua posizione tradisce la sfida contemporanea alla pratica clinica: la sua estensione oltre la stanza di terapia. Traggo questo orientamento sia da Freud sia da Jung, che consideravano il loro lavoro un lavoro sui tempi e sulla cultura collettiva in cui la psiche era immersa».
Spulciando ancora tra le molte lettere di questo carteggio, più incline alla perplessità che all’elogio appare anche Marcello Pignatelli, che – seppure con garbo amichevole – segnala il rischio di una deriva estetizzante. Come sempre Hillman si diverte soprattutto a spiazzare, e in questo caso lo fa rievocando una bella serata romana di anni fa proprio nella casa di Pignatelli, il “collega” junghiano involontariamente caduto in un fraintendimento comune.
«Quando tu mi hai ricevuto lì, con vino, cibo e conversazioni, ponendo attenzione ai bisogni di un visitatore straniero? questo tuo comportamento apparteneva all’etica o all’estetica? Conosci bene la tradizione classica, da Platone in poi, in cui Estetica ed Etica erano inseparabili. Entrambe sono contenute nella parola Kosmos, che significa giusto ordine, implicando sia la bellezza sia la giustizia»: per Hillman, la divisione tra queste due nozioni può risultare, oltre che falsa, dannosa per entrambe «poiché priva il mondo dell´estetica di ogni moralità e il mondo morale di ogni sensibilità». Dal suo punto di vista, l’insistenza sul bello avrebbe di per sé una connotazione di ordine etico.
Sarà il caso di fare almeno un cenno allo scambio affettuosissimo che in questo libro si rintraccia tra Manlio Sgalambro e Hillman sulla condizione della vecchiaia, un tema su cui entrambi si sono esercitati con risultati brillanti. Il filosofo gli ha inviato una sua poesia che si conclude con questi versi:
«Il vecchio è colui nel quale la vita è finita. Ma quale vita? La vita funzionale, la vita dei ruoli, la vita che passa attraverso il “permesso” di vivere concesso dalla società a certi patti. Ma è dopo tutto questo che resta la “vita”. La bellezza del vivere per nessuno scopo, del vivere per vivere».
La replica di James Hillman è – almeno in questo caso – nel segno dell’entusiasmo: «Quanto più, quanto più squisite, quanto più apportatrici di verità sono le strofe della Sua poesia rispetto al mio intero libro sull’invecchiare!». L’epilogo si riassume nell’invito di un signore forse stravagante ma dallo charme innegabile, che prende congedo con poche semplicissime parole, impronunciabili per certi geometri della psiche: «Posso incontrarla un giorno nel Suo caffè preferito?».
Pubblicato su La Repubblica, 03/12/2004